(Parte seconda. La prima è qui)
Come ricordato nella prima parte di questo “primer” sull’opera di uno dei più importanti e dotati (ancorché misconosciuti) sceneggiatori della storia del fumetto britannico, è nel 1993 che la carriera di John Smith sembra avere un punto di svolta. Sfortunatamente, si tratta di un punto di svolta in negativo, poiché la carriera di Smith, fino a quel momento in ascesa, si blocca improvvisamente quando invece sembrava destinata al lustro di acclamati colleghi come Gaiman e Morrison, in quel momento vere superstar. Con i colleghi britannici, Smith condivide un approccio alla scrittura d’ispirazione punk. Lo stile di Smith, come Morrison o Milligan, è moderno e ribelle nei confronti della classica impostazione fumettistica del periodo, colto eppure pop, pretenzioso eppure decadente, focalizzato sullo zeitgeist eppure psichedelico, fortemente informato, quantomeno in spirito, ai dettami di Alan Moore eppure in via di liberazione da un’ispirazione tanto importante quanto limitante. E invece, come detto, lo stop brutale, dovuto a Scarab.
Lustri prima di un fumetto acclamato come Planetary, Smith aveva avuto un’idea semplice ma fulminante: quella di creare una nuova (retro)archeologia di eroi bizzarri e stravaganti in un universo (quello Vertigo) completamente vergine. Sulla carta, l’ambiziosa idea era vincente, ma pubblico e dirigenza DC non erano ancora pronti.
Scarab, pur non essendo un cattivo fumetto, appare in molti punti privo di mordente e pesante. Però la colpa non sembra essere solo di Smith, in questo caso. Infatti, l’autore aveva inizialmente visto accettata la proposta di una versione “vertiginosa” di Doctor Fate, che, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere sottoposto a un trattamento radicale in maniera analoga alle altre serie a continuazione della Vertigo, come Sandman, Animal Man, Shade, Swamp Thing e Doom Patrol. In maniera assolutamente inspiegabile (o forse no, come vedremo), il trattamento presentato da Smith fu ritenuto troppo estremo (potete immaginare la cosa? Dopo Sandman, Animal Man e Shade?).
A questo punto, incassata la censura, Smith si adattò a creare ex-novo una sorta di analogo del Dottor Fate, appunto lo Scarab, ma dovette subire l’ulteriore beffa di una “demozione” da serie regolare a miniserie di otto “sub condicione” (cioè, il destino della serie sarebbe stato determinato dal gradimento dei primi otto numeri: a fronte di vendite sufficienti, Scarab sarebbe diventato serie regolare).
I risultati della battaglia editoriale sono evidenti. È palese che, dal numero 6, Smith si sia ormai stancato dell’esperienza (poi definita la peggiore della carriera, a livello editoriale): Scarab, nonostante la non comune padronanza del ritmo da parte dello sceneggiatore e nonostante alcune trovate della trama molto efficaci, si “sgonfia” subito. La narrazione inizia a diventare sterile, e alla fine Smith ricorre all’inserimento di una storyline sfacciatamente ispirata a Indigo Prime, di cui compaiono persino gli agenti Dazzler e Creed (episodio 7). La serie si chiude in maniera confusionaria e forzata dopo 8 numeri che sembrano mettere un punto sulla carriera USA dell’autore, che da quel momento in poi scompare praticamente del tutto dal mercato statunitense, se non per episodi sempre sporadici.
Peccato, perché, nonostante una certa voglia da parte di Smith di stupire/esagerare (l’approccio dello sceneggiatore sembrava quello di voler superare a tutti i costi i limiti dell’horror psicologico “classico” Vertigo, per gettarsi a capofitto verso un abisso di disgusto, come usuale, molto “fisico”), l’inizio era stato promettente.
Dal punto di vista artistico, si nota una certa perizia da parte del team grafico, formato da Scot Eaton e Mike Barreiro (certamente molto più apprezzabili di altri colleghi Vertigo dell’epoca, anche se indirizzati a copiare la star Bachalo quando sia necessario), che sono annichiliti da una colorazione impastata e con una paletta totalmente inadatta. Non bastano le eccellenti copertine di Glenn Fabry (e Tony Luke) a sostenere tutto, specialmente quando Smith getta la spugna.
Eppure, anche in un esperimento non del tutto riuscito come Scarab, le istanze in cui il talento di Smith brilla sono molteplici.
Abbondano nel fumetto i particolari “tattili”, che contribuiscono a creare un senso di disagio e claustrofobia. In particolare, si nota l’influenza di William Burroughs e Cronenberg, fra proliferazioni di disgustosi insetti, modificazioni corporali/mutilazioni, situazioni sessuali “estreme” (suggerite più o meno velatamente) e infezione.
Già dal primo numero, i riferimenti esoterici si alternano agli effetti horror, creando una continuity in stile Doom Patrol che costituisce il perfetto background per gli eccessi narrativi di Smith. Altri momenti di particolare potenza, durante la serie, sono quelli legati al culto di Pan (brillantemente legato a una setta che credeva nell’automutilazione dei genitali). Eccellente, per quanto “morrisoniano” l’uso del “Primal Scream” generato dalla bomba atomica a Hiroshima, mentre la sottotrama legata alla vicenda di Eleanor, la moglie del protagonista ci mostra Smith in grande forma. Ancora una volta, è il tocco pop di Smith a fare la differenza, nonostante i problemi di gestione. Scarab si configura come un glorioso fallimento.
Dopo la chiusura dell’esperienza Vertigo, Smith ritorna a scrivere praticamente solo per 2000AD.
Cooptato per la “Summer Offensive” di 2000AD, in cui Grant Morrison e Mark Millar fanno da co-editor e si scatenano in 8 numeri settimanali ad alto tasso di rozzezza e divertimento fuori di testa (fra cui spiccano l’acido Really & Truly di Morrison-Rian Hughes e l’eccezionale Big Dave di Morrison-Millar-Parkhouse), John Smith presenta l’accessibile e sarcastico Slaughterbowl (disegnato da Paul Peart). Slaughterbowl è stata definita da alcuni “la storia più malata mai pubblicata su 2000AD”, e non è impresa da poco!nLa strip inizia con l’uccisione di un panda nella prima pagina e lo smembramento di altri 5 nella seconda, per capirci. Da lì in poi, Smith usa con sapienza ogni possibile cliché legato ai serial killer in maniera totalmente sopra le righe, ma riesce, sullo sfondo, a prendere di mira le televisioni e persino il sistema sanitario in maniera molto efficace e mirata.
Nonostante la sagacia di fondo, Slaughterbowl non è un successo clamoroso (forse anche a causa delle reazioni contrastanti alla Summer Offensive da parte del pubblico), e Smith scompare dal radar, pur riuscendo a scrivere per le icone storiche di 2000AD (soprattutto Rogue Trooper e Judge Dredd). Nel mentre, nel 1995 scrive anche qualche back-up story per l’Ultraverse della Malibu (poi acquistato dalla Marvel e “rottamato” negli anni a seguire), ma l’esperienza non è felicissima e soprattutto non porta a nessun impiego stabile per quanto riguarda le major americane.
Il 1997 vede il ritorno di Devlin Waugh, fino ad allora funestato da tutta una serie di incidenti. La situazione si sblocca in un crossover con Judge Dredd, Fetish. Per spiegare i ritardi abissali, legati a problemi editoriali, di riscrittura e a ben tre cambi di disegnatore (Sean Phillips e Ashley Wood rifiutarono la storia, poi assegnata a Siku) che bloccarono per sette anni il personaggio), l’editor David Bishop si inventa la locuzione “la maledizione di Devlin Waugh”.Nel 1999, la maledizione sembra colpire ancora: John Smith ripropone Devlin Waugh nella storia lunga Chasing Herod/Reign of Frogs/Sirius Rising (disegnata da Steve Yeowell). Nonostante la storia sia divertente e ricca di spunti, citazioni e colpi di scena (fra cui l’apparizione dell’affascinante madre di Devlin, Stella), sembra mancare qualcosa in fase di costruzione della trama.
A dispetto di questo (e nonostante i disegni non ispirati di uno Steve Yeowell poco in forma), Smith riesce a infarcire la storia di interessanti riflessioni sulla sessualità (non mancano le allusioni a una pedofilia “socratica” di Waugh e in una scena si vede un bacio interspecie fra due esseri soprannaturali che rimanda chiaramente alla bestialità), di citazioni e allusioni superpop e di richiami all’onnipresente “Smithverse”. Chasing Herod è la storia più “morrisoniana” di Smith (anche grazie al tratto di Steve Yeowell, che rimanda al classico Zenith), ma le idiosincrasie dello sceneggiatore, che spiccano in maniera evidente, soprattutto nell’uso dei dialoghi, sempre brillanti, e nel costante occhieggiare-parodiare il mondo della cultura popolare, non riescono a salvarla da una parziale deriva.
Anche in questo caso, l’autore gioca sulla minaccia esterna e su una tensione che monta fuori tavola come escamotage narrativo (nonostante carneficine enormi e minacce di scala cosmica), ma la mira non è precisa.
I Pussyfoot 5, che debuttano in Chasing Herod, a partire dal 2000 sono protagonisti di una successiva serie di storie che fanno perno sull’esoterismo pop già sviluppato in precedenza (cementando, se mai ce ne fosse bisogno, lo “Smithverso”), e sono raccolte successivamente in volume. Pur non essendo un capolavoro, Alien Sex Fiend esplora con successo il terreno fra il pop e l’esoterismo da cui Smith non sembra poter più sfuggire.
Negli anni fra il 2001 e il 2003, Smith riprova l’ennesima avventura negli USA. I risultati sono di nuovo pessimi: il ciclo di Vampirella per la Harris subisce costanti, demenziali censure e l’interessante idea di base di Smith (una Vampirella in versione Valerie Solanas, una “vagina dentata in tacchi a spillo” come peggior incubo dei maschi eterosessuali) viene stravolta da un editore che vuole fare cassa sulla paranoia da undici settembre. Il commento di Smith, che definisce Vampirella la peggior esperienza mai fatta su un fumetto (a parte Scarab) è laconico: “quella roba è cibo per cani […]; mi vergogno persino di essere associato a quelle storie…”.
Va molto meglio, invece, con il successivo ritorno di Devlin Waugh nella saga Red Tide, che esce su 2000AD nel 2003 (dopo un ulteriore, prevedibile ritardo dovuto alla rinuncia da parte di Jock, che aveva già realizzato una manciata di tavole disegnate).
Red Tide riporta Waugh alla dimensione “dandy horror” originale. Le tavole dipinte di Colin McNeil ridanno finalmente tono muscolare e volume al corpo di Waugh (che Yeowell aveva male interpretato, tradendone lo spirito a livello grafico). Lo splatter della storia mette in evidenza la capacità da parte dello sceneggiatore di organizzare in maniera coerente thriller a orologeria. La perfetta costruzione della trama, insieme alla interessante caratterizzazione psicologica di tutti i protagonisti (la “cattiva” Lilith su tutti) e l’intelligente gestione di atmosfere claustrofobiche e alienanti evidenzia il tentativo di creare i presupposti per una saga con nemici forti, ma anche la capacità di reinventare ciclicamente un personaggio come Devlin Waugh, che in mani meno abili sembrerebbe destinato a diventare velocemente una macchietta monodimensionale.
Dopo un’altra “pausa” di cinque anni non proprio memorabili sempre in casa 2000AD, la carriera di Smith sembra rinvigorirsi di nuovo a partire dal 2008, quando esce Dead Eyes, disegnato da Lee Carter, disegnatore dallo stile pittorico che aveva esordito su Event Horizon della Mam Tor. Dead Eyes si segnala per le tavole dipinte in stile ultrarealistico (ancorché non esenti da qualche ingenuità anatomica), per i toni duri da storia di guerra-cospirazione e per la “solita” comparsata degli agenti di Indigo Prime: in questo caso, sono Winwood e Cord ad apparire nelle ultime pagine della storia dando un senso alla vicenda.
Questo fa da preludio alla successiva storia di Indigo Prime, la fantasmagorica Anthropocalypse, uscita nel 2011 e disegnata da Edmund Bagwell, disegnatore di enorme talento capace di coniugare tratto iperrealistico e spettacolarità di layout cinetici e ispirati al maestro Jack Kirby che interpretano alla perfezione le atmosfere psichedeliche richieste dallo sceneggiatorie.
Con Bagwell, inizia a cementarsi un sodalizio creativo di alto livello, che sfocia in Cradlegrave (2011). Nella storia, Smith si supera, con un capolavoro di horror (non solo) psicologico che riporta l’autore inglese alle atmosfere “realistiche” alle quali l’autore non si applicava dai tempi dello sfortunato Straitgate.
Cradlegrave è una storia ambientata in un quartiere ghetto inglese, una di quelle “estate” che la società inglese sembra aver concepito come prigione per una gioventù sbandata e in preda alle droghe. Una gioventù (e non) la cui unica occupazione è quella di rimanere costantemente il più possibile sballata, per non pensare all’incertezza del domani e alla mancanza di qualunque prospettiva futura, se non quella di finire peggio dei propri genitori. Un (non) luogo dove vengono annullati tutti i valori umani e dove l’asfalto e l’immondizia si trasformano in giungla, dove vige, letteralmente, troppo letteralmente, la del “cane mangia cane”. In questo contesto assolutamente deprimente, il ghetto (una QUALCOSAgate che diventa Cradlegrave, con evidenti rimandi a un disperatissimo “dalla culla alla tomba”) si trasforma lentamente in una pentola a pressione, scoperchiando orrori indicibili, terribili nella loro (asimmetrica) bellezza e portando a galla l’orrore, quello vero.
L’analisi di Smith è più profonda del classico e un po’ banale “i mostri siamo noi”. I mostri di Smith non sono gli ipocriti borghesi che si nascondono dietro una moralità di facciata, o le vittime, che si trasformano in carnefici per colpe esterne, di una generica e non meglio precisata “società”. I mostri sono persone che hanno perso la capacità di distinguere fra bene e male. I mostri scelgono di esserlo: sono gli spacciatori che danno la roba ai bambini, i delinquenti che brutalizzano i propri figli, i teppistelli che tradiscono i propri amici, i bulli che se la prendono con i vecchi. In tutto questo, il ghetto, che diventa stato mentale, più che luogo fisico, ha un ruolo fondamentale. Posti ordinari e familiari diventano il contrappunto a una decadenza che si è definitivamente tramutata in marciume, con la rancida sporcizia (fisica e mentale) che assalta i sensi e li intorpidisce, ottundendoli. La resistenza, per chi non vuole farsi assorbire dal “sistematico sbandamento dei sensi” è difficile, ma possibile, come Smith, con sagacia, dimostra con un finale che mette in luce che, nonostante tutto, si può andare avanti e sperare in un futuro migliore.
Smith, supportato nella maniera più efficace da un Bagwell mai così incisivo nel proprio realismo (ancorché troppo legato a modelli 3D per gli ambienti, ma sono difetti di scarsa importanza), riesce a mettere in scena la psicologia dell’orrore di una quotidianità becera e spaventosa: quella che colma col consumismo – anche psicologico – un vuoto che non riesce a nascondere quell’abisso di follia, marciume e degradazione che porta le classi più povere all’autodistruzione. Sebbene la società “civile” volti lo sguardo da un’altra parte, si può nascondere la spazzatura sotto il tappeto, ma non si può eliminarne l’odore. A livello di tecnica, qui Smith è al top nella capacità di creare tensione: la trama, lineare eppure intricatissima, procede su binari paralleli che mischiano metafora e rappresentazione lineare, realtà e delirio, fuga dalla realtà e solipsismi perfettamente incastonati. La snervante cadenza dei gesti quotidiani e di un approccio quasi “sensoriale” esaspera il senso d’incombente tragedia che, fuori vignetta, impregna tutta la vicenda. Il senso di un dramma imminente eppure impossibile da prevedere con esattezza pervade ogni tavola, e diventa mano a mano più insostenibile ad ogni particolare rivelato dalla matita di Bagwell, che impietosamente rende con perizia la crescente decadenza morale e fisica dei personaggi, pustola per pustola, e al contempo rivela un orrore “interno” al ghetto che non è meno reale e disgustoso di quello metaforico.
L’aspetto legato alla cultura popolare è come sempre fondamentale, ma l’uso della materia pop questa volta è mirato a stabilire un senso di realismo tutto britannico di una working class dalla quale è impossibile fuggire. Allo stesso tempo, l’uso martellante di riferimenti pop esaspera il tono decadente di una società dei consumi che parassita le classi meno abbienti e ne divora i cuccioli in maniera speculare alle metafore presentate nel fumetto.
Smith è bravissimo nell’evitare il cliché dei giovani “pikey” del ghetto come demoni (utilizzato, per esempio, da Denise Mina in un ciclo di Hellblazer). Si concentra invece su un realismo meno “facile” dal punto di vista metaforico, creando invece situazioni più stranianti e orrorifiche che non sembrano lasciare scampo a nessuno, lettore compreso. E invece, nonostante tutto, in maniera in qualche modo circolare, Smith riesce a chiudere con una nota positiva e con un falò liberatore che, come nei casi più classici di contagio, purifica dalla “malattia” e dal sudiciume la vita dei protagonisti.
Lo stile di John Smith è affine a quello del collega Grant Morrison per quanto riguarda l’uso di tecniche di scrittura non convenzionali (in particolare, entrambi gli sceneggiatori, in diverse fasi della carriera, non hanno disdegnato di ricorrere a metodi di scrittura avanzati e a tutt’oggi poco esplorati nell’ambito dei fumetti, come i cut-up di ispirazione burroughsiana e la scrittura automatica).
Un altro punto in comune con Morrison (ma non solo) è l’iniziale profonda influenza da parte delle opere di Alan Moore, superata brillantemente rielaborando l’ispirazione mooriana per arrivare a uno stile personale che abbandona ogni pretesa di realismo (riabbracciato comunque da Smith quando ha senso dal punto di vista narrativo, come in Cradlegrave). In questo senso, John Smith lavora invece quasi sempre sulla stilizzazione di un incombente e ineffabile senso di tragedia che, come uno zoom narrativo, risucchia ogni dettaglio e ne ingigantisce il senso funzionale.
L’altro punto di contatto fra Morrison e Smith è legato all’utilizzo del materiale pop come terreno di coltura per storie e personaggi, sempre perfettamente radicati nello spirito del tempo.
In maniera simile a Morrison, anche Smith corre a volte il rischio di essere involuto e poco accessibile per il lettore medio, visto l’uso costante di trame intricate, citazioni colte e richiami a tematiche non sempre immediate e trattate in maniera “bizzarra”.
Dove invece Smith si differenzia, da Morrison e dalla maggior parte dei collegi, è nella capacità di catturare in maniera sempre inappuntabile la “haeccitas” dei dettagli che rendono vivi gli scenari evocati. Questo funziona in maniera particolare nel contesto della tensione, fuori e dentro le pagine, che Smith è così bravo a creare, ammiccando al soprannaturale come metafora dell’ineffabile che ci portiamo dentro. In questo senso, magia e psichedelia, più che un modo di vita (come nei casi ultraconosciuti di Morrison e Moore), risultano un interesse approfondito soprattutto per analizzare l’eterna dialettica “normale”-“diverso”. Questa serve a Smith per creare cortocircuiti funzionali a raccontare quasi sempre trasformazioni nei personaggi (principali e non) basate sulla presa di coscienza della dissoluzione dei modelli fissi della società.
In quest’opera di sistematico straniamento del lettore (in cui le tecniche di scrittura automatiche hanno un peso non trascurabile), un aspetto fondamentale della poetica di John Smith è l’esame approfondito della sfera sessuale, che serve spesso a colpire il lettore con una sorta di “sense of wonder” che richiama l’attrazione-repulsione dei momenti fondamentali della scoperta della propria sessualità. Stili di vita “alternativi” e/o “bizzarri” dal punto di vista della sessualità costituiscono uno degli aspetti più interessanti della costruzione dei personaggi di Smith.